giovedì 28 maggio 2015

L'ISOLA DELL'ASINARA, SARDEGNA


Ho da sempre un’innata attrazione per le isole. Grandi o piccole che siano. La Sicilia d'altronde è il mio grande amore. Devo dire però che più le dimensioni di queste terre emerse sono ridotte, più ne vengo soggiogata.
Sarà forse perché nelle piccole isole si respira una più forte atmosfera marittima? Di certo il mare ha un forte potere su di me. Che sia la più torrida delle estati o il più gelido degli inverni, appena vedo un’onda infrangersi sugli scogli, mi sento pervadere da un’invidiabile serenità. Il mare lo amo sempre, a prescindere.
Credo che un ruolo importante lo giochi anche l’isolamento che inevitabilmente qualsiasi isola porta con sé. Ho periodicamente bisogno di prendermi i miei spazi, di sentirmi distante da tutto e da tutti, come se fossi catapultata in una realtà diversa e remota concessa a pochi privilegiati, e questi microcosmi di flora, fauna e tradizioni, solitamente intatte nel tempo, me lo consentono sempre.
Poi c’è la natura, che sulle isole è sempre più generosa, più particolare, più sorprendente. Sempre protagonista.
E che dire delle emozioni? Io invidio gli isolani.  Penso che abbiano la fortuna di provare qualsiasi stato d’animo e sentimento amplificati al massimo del possibile. Invidio anche il forte senso di appartenenza che nutrono per la loro terra, cosa che per esempio io non nutro per la mia. Sarà colpa della Palude Padana e del suo aspetto triste, monotono e ormai poco autentico? O il mio innegabile spirito nomade e ribelle mi avrebbe portato comunque ad essere sfuggente? Io penso che quest’ultimo sarebbe in ogni caso parte di me e che sarei comunque affamata di mondo, ma non ho dubbi nel credere che in una terra bagnata dal mare, in cui la natura regna sovrana e indisturbata, mi sentirei a mio agio, nel posto giusto.
Considerata la premessa, avrete intuito che parlarvi di isole, di piccole isole, era assolutamente in programma. L’avrei fatto entro breve, d’altronde - che il Signore sia lodato - l’estate è alle porte. Lo spunto per cominciare però mi è stato offerto dalla mia amica Cri. Stendendo un velo pietoso sul triste contesto della solita telefonata alle 7:30 del mattino mentre in macchina ci rechiamo al lavoro, la domanda della giornata è stata: “Una settimana di mare a giugno, destinazione Sardegna, dove???”. La Cri, che come la sottoscritta è follemente innamorata dell’altra grande isola nostrana, in Sardegna c’è stata solo una volta, finendo per sbaglio in un villaggio, tanto da sostenere giustamente di non esserci in realtà mai stata. L’obiettivo è quindi quello di farla riscattare dall’esperienza precedente, spedendola nell’angolo più bello di questa regione, parco nazionale, nonché una delle mie isole preferite in assoluto: l’isola dell’Asinara.


E’ subito necessaria una doverosa premessa: sull’isola vi è un’unica struttura ricettiva, l’ostello sito nel borgo di Cala d’Oliva. Se non dormite qui, l’unica alternativa sono le escursioni giornaliere private in fuoristrada o in autonomia con il trenino turistico, le auto elettriche o i piccoli bus di linea. Naturalmente sconsiglio queste ultime opzioni, non coerenti con lo spirito dell’isola, nonché molto limitanti sia come orari, sia negli spostamenti. L’isola ha un’unica strada asfaltata che collega le due estremità, altrove troverete esclusivamente sentieri sterrati sui quali difficilmente vi potrete spostare con i mezzi ma solo grazie a lunghe camminate o a impegnative pedalate. Non capirete mai veramente l’isola, non entrerete mai davvero a contatto con il suo spirito ancora totalmente puro e selvaggio se non soggiornandovi qualche giorno. So che alcuni di voi saranno titubanti di fronte all’opzione ostello, ma vi sbagliate di grosso. Si tratta infatti di una struttura di tutto rispetto. Le stanze sono semplici, essenziali ma pulite e silenziose e, oltre alla classica sistemazione in camerata, potete trovare qualche camera doppia, da prenotare con largo anticipo come abbiamo fatto noi, e anche qualche quadrupla, ottima soluzione per le famiglie con bambini. Sono comunque certa che vi troverete bene in ogni caso, infatti i clienti dell’ostello, persone di ogni età, sono inevitabilmente veri amanti della natura e della tranquillità e rispettosi dell’ambiente e di chi che li circonda. I bagni in comune, presenti ad ogni piano e naturalmente separati per uomini e donne, sono sufficienti per quantità e sempre pulitissimi, infatti non mi è mai capitato di fare fila per la doccia o per bisogni più impellenti, nonostante la struttura fosse interamente occupata. Una piacevole sorpresa è stata anche il cibo, per il quale ammetto di essere partita prevenuta. La colazione è piuttosto spartana ma abbondante, fondamentalmente a base di pane accompagnato da nutella o marmellate confezionate; per pranzo potete richiedere un packed lunch composto da un panino ripieno con affettato a scelta, acqua e frutta, ma se vi siete portati altro dalla terra ferma (noi per esempio a Stintino, prima di imbarcarci per l’isola, abbiamo fatto tanta scorta di frutta a sostenerci durante le nostre pedalate) potete chiedere tranquillamente che venga conservato nei loro frigoriferi; la cena infine è il pasto migliore della giornata in quanto buona, abbondante e varia, con alcune chicche come i ravioli di ricotta fatti a mano, che non mi sarei proprio aspettata di trovare in tale contesto. Io francamente continuo a sperare che questo ostello resti l’unica soluzione per soggiornare sull’isola. Temo però che non sarà così a lungo… Già negli ultimi anni sono stati aperti un ristorante nella zona di Cala Reale e un paio di piccoli chioschi lungo la strada principale. 

Pensate che invece fino al 1998 l’isola era totalmente interdetta al turismo in quanto adibita esclusivamente a penitenziario con vari distaccamenti sparsi per tutto il suo territorio. La struttura dove ora si trova l’ostello ad esempio ospitava gli agenti di custodia e le loro famiglie. A Fornelli, porto principale di attracco dell’isola e sede del Castellaccio, fortezza diroccata che dall’alto domina l’intero borgo, si trova la struttura  detentiva principale, attrezzata a carcere di massima sicurezza in cui vennero reclusi diversi esponenti delle Brigate Rosse, dell’anonima sequestri e colpevoli di crimini di mafia. Da segnalare anche la presenza di un bunker nella diramazione di Cala d’Oliva, dove furono rinchiusi esponenti mafiosi sottoposti al regime del carcere duro quali Riina, Cutolo e Bagarella. Queste erano le uniche strutture carcerarie dell’isola in cui i detenuti non uscivano per dedicarsi al lavoro, principalmente agricolo, all’interno della colonia penale. D’altro canto nell’agosto del 1985 i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borselino trascorsero per motivi di sicurezza personale un breve periodo sull’isola in quella che al tempo costituiva la foresteria di Cala d’Oliva. Stavano portando a termine la sentenza-ordinanza del maxi processo che rinviò a giudizio centinaia di boss mafiosi. Eroi.
Un’ultima curiosità è rappresentata dal fatto che il carcere dell’Asinara detiene il record del minor numero di evasioni al mondo: in 112 anni è riuscito a fuggire un solo detenuto. Meglio del ben più noto carcere di Alcatraz!

E’ proprio grazie alla presenza del carcere di massima sicurezza che l’Asinara è oggi una delle isole del Mediterraneo in cui vi è stato minore sfruttamento del territorio. Insomma, se escludiamo qualche atollo disperso nel mezzo del Pacifico, dove altro troverete l’occasione di godervi l’esclusività di un’isola completamente disabitata, ancora selvaggia e incontaminata? Un’isola paradisiaca dove sentirsi dei veri Robinson Crusoe! Spiagge di sabbia finissima e bianchissima che anche in pieno agosto potrete gustarvi in piena solitudine, mare limpidissimo dalle infinite sfumature turchesi nel quale sguazzare circondati da una miriade di pesci, tantissimi animali allo stato brado, su tutti i caratteristici asinelli albini, con il manto bianco e con gli occhi e le palpebre rosate il cui raglio rappresenta la tipica sveglia mattutina, ma anche cinghiali, mufloni, capre, che inaspettatamente si affiancheranno a voi o vi attraverseranno la strada durante le vostre esplorazioni. Per non parlare di quanto è magica la notte, con il suo cielo ricco di stelle tanto grandi e luminose da sembrare di poterle quasi afferrare, il tutto in un silenzio quasi irreale.



Il carattere prevalentemente collinare dell’isola con strade e sentieri che si snodano in un tortuoso sali e scendi, le sue coste alte e frastagliate tra le quali sono incastonati i suoi gioielli più preziosi, spiagge e cale paradisiache, rendono la sua esplorazione non semplice. Io e il maritozzo abbiamo noleggiato due mountain bike che ci hanno permesso di esplorare ogni angolo dell’isola ma in 4 giorni abbiamo bucato 3 volte, in alcuni tratti di sterrato in salita abbiamo dovuto sollevare le biciclette a mano con uno sforzo non indifferente, senza contare un paio di comici ruzzoloni dalla bici, uno dei quali mi ha portato a capitombolare proprio sul ciglio di un dirupo con uno discreto spavento (ok, meglio passare a miglior vita nelle limpide acque sarde, piuttosto che soffocata dall’aria irrespirabile della Palude Padana, però magari un’altra volta che ho ancora tanto da esplorare). A tratti è stata davvero dura, ma ce l’abbiamo fatta pur non essendo ciclisti professionisti, quindi posso affermare che, per chi è in forma fisica, l’utilizzo della bicicletta è fattibile e poi vi assicuro che qualsiasi fatica sarà ampiamente ricompensata. Se escludo il continente nero, infatti quest’isola è il luogo in cui ho maggiormente sentito il contatto con la natura, dove ho potuto respirarla più forte che mai. Naturalmente i vari sentieri tematici presenti sono percorribili anche a piedi con delle scarpe da trekking, un buon cappellino e tanta acqua. 



Di certo è imperdibile il sentiero che da Cala d’Oliva porta al faro di Punta Scorno, passando per l’incantevole Cala d’Arena, spiaggia di sabbia bianca di una bellezza accecante, sorvegliata dall’imponente torre aragonese, protetta alle sue spalle dalle dune ricoperte da un fitto manto di ginepri e lambita da acque incredibilmente trasparenti. Questa spiaggia, come la splendida cala Sant’Andrea situata nella zona sud-est dell’isola, ha però un difetto: l’accesso è vietato in quanto zona A dell’area marina protetta, quindi soggetta a massima tutela ambientale. E a questo proposito mi sento di aprire un breve parentesi. Io sono una grandissima amante della natura e nutro nei suoi confronti un profondo rispetto, ma il fatto che queste splendide spiagge siano totalmente inibite all’essere umano mi rattrista non poco. Verissimo che purtroppo molte persone, anzi la maggior parte, sono tremendamente incivili, ma trovo davvero un peccato non permettere a coloro che la natura la amano davvero di godere di tanto splendore. C’è da considerare inoltre che entrambe le spiagge, così come gran parte dell’area rientrante nella zona di protezione integrale, non sono così facilmente accessibili e pochi si spingono fino alle loro sponde. Naturalmente l’accesso ai mezzi motorizzati è e deve restare bandito, così come il divieto di danneggiare l’ambiente e abbandonare sporcizia, che andrebbe altrimenti fatta ingoiare al diretto responsabile dopo il pagamento di una salatissima sanzione. Che poi, diciamocelo, non ci sarebbe neanche bisogno di imporre un divieto, basterebbe del semplice buon senso. Questo sfogo è certamente lo specchio del mio stato d’animo di fronte all’impossibilità di immergermi in quelle solitarie acque cristalline dopo una faticosa pedalata. Stato d’animo che ricordo ancora molto bene. E ammetto anche che forse sono troppo ottimista. In effetti ci siamo stupiti dei tanti complimenti ricevuti per non aver infranto la regola, dando per scontato che una volta arrivati fino a lì ci saremmo inevitabilmente fatti tentare dalla bellezza di quelle lagune blu. Alcuni addirittura non credevano al fatto che abbiamo resistito nel tuffarci. Eppure è così. Se la legge mi impone un divieto lo rispetto, anche se non lo condivido totalmente come in questo caso. 



Mi fermo qui con questa riflessione lievemente polemica e continuo con una buona notizia, infatti non avrete problemi a trovare altre meravigliose spiagge dove potervi crogiolare al sole in santa pace o sguazzare in un’acqua dalla limpidezza irreale. Decisamente irrinunciabili sono Cala Sabina, una meravigliosa doppia lingua di sabbia vellutata e immersa in una vegetazione selvaggia ma facilmente raggiungibile dall’ostello di Cala d’Oliva con una passeggiata poco impegnativa di circa 30  minuti, e la spiaggia dell’ossario, anche questa facilmente accessibile in quanto situata a ridosso della strada principale dell’isola e in prossimità di un edificio, l’ossario appunto, risalente alla prima guerra mondiale e contenente i resti di oltre 7000 militari austroungarici. Anche qui rimarrete incantati da un mare dalle sfumature caraibiche e pullulante di pesci. Seppur di facile accesso, nonché nel bel mezzo del mese di agosto, ho potuto beneficiare in esclusiva di entrambe queste spiagge, ritrovandomi beatamente sola a godere della loro sabbia morbida e delle loro acque tropicali. Bisogna però dire che proprio grazie sia alla loro accessibilità, sia all’indiscutibile bellezza, si tratta delle cale prescelte da fuoristrada, trenino e bus per depositare la maggioranza dei visitatori giornalieri, indicativamente tra le 14 e le 16 del pomeriggio. Poco importa, basta spostarsi altrove e ritornarvi negli altri orari per un bagnetto solitario, proprio come sto facendo io nell'immagine qui sotto... E sì, sono io il puntino nel mezzo di quella magnifica distesa turchese!






Insomma adesso che siete informati dell’esistenza di un simile paradiso incontaminato nel civilizzato territorio nostrano, sta a voi decidere se goderne e in qualunque caso nel fare di tutto per preservarlo!

venerdì 15 maggio 2015

THE SOLITAIRE BAKERY, NAMIBIA


Sacrilegio!

Sono arrivata a quota 10 post e non ho ancora parlato del continente più magico, quello che non può mancare nel curriculum di ogni vero esploratore. Naturalmente sto parlando di madre terra Africa. Non me ne sono dimenticata, assolutamente no, è solo che avendo talmente tanto da dire, non sapevo da che parte cominciare, così ho rimandato fino ad ora.
Nel continente nero per il momento ho fatto un unico viaggio. Unico soprattutto perché sono fermamente convinta che quello in Namibia resterà per sempre IL VIAGGIO, unico anche a livello numerico ma, dalle mie approfondite ricerche e secondo l’opinione di chi questa terra l’ha percorsa in lungo e in largo, l’esperienza più ricca che si possa vivere in questa parte del globo.


La Namibia infatti è una piccola Africa. Qui troverete un concentrato di tutto il meglio che il continente vi può offrire: vasti deserti sia di pietra, sia di sabbia, rossa o bianca, dove maestose e imponenti si innalzano le dune più alte al mondo; numerose riserve private e non, tra le quali spicca Etosha, uno dei parchi più estesi dell’intero continente nonché vero e proprio santuario della fauna africana; gruppi etnici che seguono ancora il proprio stile di vita tradizionale senza aver subito alcuna minima interferenza dalla società moderna; massicci montuosi che vi regaleranno panorami che non hanno nulla da invidiare a quelli dell’emisfero settentrionale del pianeta; un importante sito archeologico patrimonio UNESCO; piante endemiche e paesaggi spettacolarmente drammatici di una natura che più selvaggia e autentica non si può trovare.
Capite bene a quale scelta tormentata mi sono trovata di fronte: "Da dove parto? Che gli racconto?" Bene, la risposta è niente di tutto quello di cui vi ho accennato sopra! Lo farò, certo che lo farò, ma da buona esploratrice golosa ho deciso di inaugurare la numerosa serie di post namibiani parlando di buon cibo. E so già che vi spiazzerò! Tra le tante bontà che ho gustato e che prima o poi mi auguro di poter assaporare di nuovo, oggi vi suggerisco qualcosa che non vi aspettereste mai di trovare nel cuore dell’Africa. Sappiate infatti che per gustarvi la miglior torta di mele di sempre dovete recarvi nel bel mezzo del deserto del Namib. Sì, avete capito bene. E no, non sto scherzando, non sto delirando e nemmeno esagerando.


La torta di mele l’ho provata in tutte le sue declinazioni e in ben tre continenti. Ho provato anche quella di Nonna Papera! Tante buone, alcune buonissime ma nessuna eccellentemente perfetta come quella della bakery di Solitaire.




Solitaire, che deve il suo nome non solo alla remota location ma anche al fatto che fino a non molte decine di anni fa la zona era ricca di diamanti, è un appezzamento di terreno polveroso dove, oltre al forno più famoso di tutta la Namibia, non troverete altro che una pompa di benzina, un piccolo ma ben fornito general store e un tranquillo lodge. E’ un punto di riferimento nel nulla, passaggio praticamente obbligato per le rinomate dune rosse di Sossusvlei, nonché sosta doverosa dopo chilometri e chilometri di sterrato. Vi basti pensare che la stazione di servizio più vicina si trova a Sesriem, circa 90 chilometri più a sud, mentre se siete diretti a nord-est, verso la capitale, dovrete percorrere 160 km prima di trovare la gas station di Rehoboth. Addirittura, se volete raggiungere la costa atlantica a nord-ovest, non avrete alcuna possibilità di rifornimento nel raggio di 240 km, fino al vostro arrivo a Walvis Bay o Swakopmund. Va da sé che una volta a Solitaire, il rabbocco di carburante è indispensabile, un controllo all’olio e ai pneumatici consigliato.




E proprio lì, dove già i cactus e le colorate e scenografiche carcasse di auto d’epoca insabbiate appaiono al viaggiatore come un miraggio, immaginate la sorpresa nel scendere dal vostro pick-up ed essere avvolti da un intenso aroma di mele e cannella! Tutto merito di colui che in Namibia è un vero mito: Moose McGregor. Non tedesco come molti credono forse condizionati dalla forte concentrazione germanica che c’è nel Paese, ma di origine scozzese, dal look inconfondibile grazie alla lunga barba e ai folti baffoni ad incorniciare le paffute guance rosso fuoco, è lui il simpatico fornaio/pasticcere che per anni ha sfornato il dolce alle mele più buono dell’universo. Parlo al passato perché purtroppo Moose ci ha lasciati nel gennaio del 2014, ma, nonostante la sua caratteristica presenza non potrà mai essere sostituita, la tradizione pasticcera continua grazie alla sua famiglia. La Solitaire Bakery infatti non ha mai smesso di sfornare dell’ottimo pane, prodotti salati di vario tipo e deliziosi dolci artigianali tra i quali spicca la specialità della casa, la prelibata torta di mele. Per essere precisi si tratta di un apple crumble, dolce tradizionale inglese che prevede una base di pasta frolla ricoperta da uno spesso strato di pezzettoni di mele aromatizzati alla cannella e in cima una copertura ancora di frolla ma dalla consistenza briciolosa. A ragione la parola crumble in inglese significa proprio briciola. Servita in porzioni più che generose, è sorprendentemente leggera, profumata e con un equilibrio di sapori perfettamente bilanciato. Le mele sono morbide e succose ma compatte, mentre la frolla e le briciole dello strato superiore apportano una gustosa croccantezza, generando cosi un piacevole contrasto di consistenze. Questo è il modo migliore per fare una sana e sostanziosa merenda, che potrete consumare in un incantevole angolino di deserto, quasi un'oasi direi. La bakery infatti ha alcuni posti a sedere all’esterno, in un raccolto giardino dotato di panche e tavoli di legno dove troverete a farvi compagnia i suoi clienti più affezionati: numerosi vivaci passerotti in attesa di qualche briciola. Anzi di qualche crumble!


Piccoli buongustai!


giovedì 7 maggio 2015

AGRITURISMO RAMUSE' - FORCE (ASCOLI PICENO)


Per staccare davvero la spina dalla frenetica quotidianità non vedo nulla di meglio che rifugiarsi in un bel agriturismo. Un vero agriturismo. Eh sì, perché a parer mio al giorno d’oggi questo termine è piuttosto abusato. Ormai mi sembra che si spaccino per agriturismi strutture magari anche di qualità e site in luoghi incantevoli, ma che di “agri” hanno ben poco. Nella nostra penisola però fortunatamente gli agriturismi autentici non mancano e io ho da poco avuto la fortuna di scoprirne uno al quale davvero non si potrebbe chiedere di più. In realtà la sua scoperta risale a circa un paio di anni fa quando, durante una delle mie navigate in rete, mi sono imbattuta nella sua pagina web e già alla seconda schermata mi sono detta: “Io qui ci devo assolutamente andare”. Peccato che, anche tentando di prenotare con mesi di anticipo, per tutto questo tempo non sono riuscita a trovare una stanza libera. Il mio momento è finalmente arrivato con lo scorso ponte del 1°maggio. Si tratta dell’agriturismo Ramusè, una magnifica casa rurale nascosta tra i dolci colli ascolani.
Sito nel comune di Force, un minuscolo villaggio di altri tempi, è in realtà in mezzo al nulla. E lo dico nel senso più positivo del termine, ritengo infatti che possa vantare una posizione praticamente perfetta. E’ immerso nel verde e in una quiete assoluta, isolato quanto basta per respirare la natura allo stato puro, ma è anche un’ottima base per spingersi all’esplorazione dei dintorni: equidistante sia dal mare, sia dai monti del Parco Nazionale dei Sibillini, entrambi a soli 30 minuti di auto, circondato da antichi borghi ricchi di storia e folklore o noti per le proprie tipicità gastronomiche e le numerose cantine vinicole e nei pressi di città d’arte come Ascoli Piceno e Fermo.


Perfettamente inserito nel paesaggio circostante è anche il magnifico casolare che accoglie i fortunati ospiti. Restaurato mantenendo fede alla struttura originale, presenta pavimenti in terracotta, muratura in pietra, travi e infissi in legno a vista. Il risultato è un ambiente rustico e caldo come da tradizione campagnola, ma anche curato ed elegante. Un tocco di modernità è dato dalla bella piscina situata a ridosso della vigna. Tutt’intorno numerose piante e alberi da frutto ben identificati. A farvi compagnia in questi ampi spazi verdi troverete tanti simpatici animali da corte. Non vi dico lo stupore e l’entusiasmo miei e del maritozzo quando di prima mattina ci siamo affacciati alla finestra della nostra stanza e ci siamo trovati di fronte l’asina Melissa e la sua figliola, l’irresistibile Coccola, di solo un mese e mezzo di vita! Entrambe all’inizio timide e sfuggenti, già dal secondo giorno sono diventate nostre inseparabili compagne di giochi. In particolare la piccola Coccola sembrava non volersi più staccare da me! Quante corse ci siamo fatte insieme! E come dimenticarsi della cagnolina Trilly e dei suoi quattro batuffoli sempre affamati, venuti alla luce esattamente un mese prima del nostro arrivo? Che amori! Non avrei mai smesso di strapazzarli di coccole! Ma i nuovi arrivi non sono finiti, infatti ci hanno accolto anche cinque gattini di soli quattro giorni! Piccolissimi, riuscivo a tenerli tutti quanti comodamente nelle mie mani. Tenerissimi e naturalmente inseparabili dalla loro mamma.  Che meraviglia, mai vista tanta nuova vita tutta insieme! Per finire ci sono pure un tacchino e un pollaio abitato da tante galline della razza Ancona, fornitrici di pregiate uova. Insomma, una piccola fattoria!



Un capitolo a parte lo meritano Paolo, ideatore di Ramusè nonché perfetto oste, e la cucina tipica del territorio da lui proposta. Paolo è veramente una persona incredibile! La passione smisurata e l’assoluta dedizione che ha messo nel suo progetto si percepiscono chiaramente in ogni sua singola parola e in ogni suo più piccolo gesto, così come è evidente l’amore che nutre per la sua terra e la sua sapiente conoscenza dei prodotti agro-alimentari locali. Non stupisce sapere che prima di buttarsi in quest’avventura, Paolo, da buon esploratore goloso, vagasse per il mondo facendo conoscere i prodotti marchigiani, tra tutti il tartufo locale di cui è un vero esperto, a importanti chef, tra i quali spicca il nome di Gordon Ramsay.  Dovreste sentirlo quando illustra con estrema accuratezza le origini e le caratteristiche del prodotto che sta servendo! Naturalmente parliamo di materie prime del territorio, stagionali e a chilometro zero. I menù proposti prevedono in gran parte prodotti cresciuti sui suoi terreni e da lui personalmente lavorati o in alternativa provenienti da aziende agricole vicine che, volendo, possono essere visitate. Il risultato è una cucina di altissima qualità, gustosa e genuina che viene elaborata da Paolo secondo la tradizionale semplicità contadina. La colazione, variegata e abbondante, è il meglio che mi sia mai capitato: dolci, yogurt e marmellata fatti in casa, frutta fresca e secca che cresce nei terreni dell’agriturismo, e, per chi ama il salato anche a inizio giornata, formaggio a latte crudo e salame locale. Io sono stata letteralmente estasiata dallo yogurt e dalla marmellata di prugne. Assolutamente divini!  Mai mangiati yogurt e marmellate anche solo lontanamente paragonabili! Lo yogurt freschissimo e dalla perfetta acidità si sposa perfettamente con la marmellata, poco dolce ma saporitissima e polposa, grazie agli abbondanti pezzettoni di frutta. Gusto ed equilibrio perfetti! Vi assicuro che, tra le tante prelibatezze offerte da Paolo, queste due da sole valgono il viaggio fino a Ramusè! Ottima anche la cena, che, come atteso, si rivela un viaggio nel territorio circostante al quale potete accompagnare ottimi vini locali o birre artigianali. Noi abbiamo optato per due calici di Pecorino, un vino bianco molto profumato, dalla gradazione alcolica media e con uno spiccato retrogusto acido,i cui vitigni crescono proprio tra le colline marchigiane. I pasti a Ramusè non sono un piacere solo per l’ottimo cibo, ma anche per la piacevole atmosfera conviviale che si viene a creare con gli altri ospiti grazie all’intima sala da pranzo dotata di un unico grande tavolo.  L’esperienza è stata così arricchita da lunghe chiacchierate multilingue che ci hanno permesso di fare amicizia con tutti gli ospiti della struttura: romani, bolognesi, inglesi, tedeschi e francesi. Non sarà mica un caso che Ramusè nell’antico dialetto marchigiano significhi amico.


Per me Ramusè è assolutamente un esperienza da ripetere in quanto incarna perfettamente il mio modo di intendere il vero viaggio, ovvero l’incontro tra natura, storia, persone, tradizioni e buon cibo.


Che dire, questo sì che è un vero agriturismo!

venerdì 1 maggio 2015

THE PUB MAP: THE HOLLY BUSH - HAMPSTEAD, LONDRA


Dopo quella dei burger (che tornerò a popolare presto, giuro), oggi parto con una nuova rubrica, anzi una nuova mappa: The Pub Map.
Le public house sono un’altra mia grande passione, a cui mi dedico assiduamente quando mi dirigo nelle due isole del nord-ovest europeo, Gran Bretagna e Irlanda. In questi paesi il pub è il centro della vita della comunità locale, sia che vi troviate in un piccolo borgo nel mezzo di campagne verdeggianti o in un popoloso quartiere della Greater London. Al pub, un po’ come in tutto il mondo, si va sicuramente per stare in compagnia degli amici e per bere numerose pinte di birra. Lì però si beve a qualsiasi ora del giorno, specialmente dopo le 5 del pomeriggio. A me pare più l’ora della birra che quella del tè. Ricordo ancora quando giovane fanciulla, poco esperta del mondo, lavoravo a Londra in un ristorante situato proprio di fianco a un pub che alle 17 in punto era gremito come il locale del momento il sabato sera, e ingenuamente mi chiedevo “Cosa ci fa tutta sta gente a quest’ora?”. Ma non è finita, gli inglesi al pub ci vanno anche per consumare pasti completi e per festeggiare una qualsiasi ricorrenza. Un paio di anni fa ci pranzai il giorno di Natale e vi assicuro che ero circondata da famiglie e coppie locali, anzi in due faticammo, con ben un mese di anticipo, a trovare un tavolo libero, in quanto molti pub erano già fully booked! Il vero anglosassone trascorre tutti i suoi più importanti momenti di convivialità alla public house. In 9 casi su 10 se esce a pranzo o a cena, non va al ristorante, quella è un’eccezione, si reca al suo pub preferito. Da noi questo non succede, al pub andiamo per bere (di sera) e al massimo sgranocchiamo qualcosa di veloce.
Va da sé che, da grande sostenitrice della filosofia “voglio vivere come una persona del posto”, quando nel Regno Unito di certo non mi reco a pasteggiare nel ristorante alla moda, ma anch’io vado al pub. Che poi sia mai che ci trovo Robert Smith a sorseggiare una buona ale! Non sto sognando, qualche anno fa, in volo per la capitale inglese, il mio vicino di viaggio era un gran fortunello che una tale botta di culo ce l’ha avuta davvero. Non vi dico la mia reazione, è stato quasi necessario un atterraggio di emergenza per farmi riprendere dalla notizia! E proprio in particolare nella capitale britannica, pur tentando in ogni viaggio di scoprire qualche nuova taverna, ho ormai la mia folta schiera di ritrovi preferiti, nei quali non riesco a non fare un salto almeno per un brindisino veloce.


Uno di questi è sito in quella che è la zona più bella di Londra. E non è la mia modesta opinione, è un dato di fatto. Parlo di Hampstead, sobborgo a nord della città, più precisamente appartenente al borough di Camden e situato ai margini della zona 2. Si tratta di una zona molto curata ed elegante, ricca e benestante, dove si concentra la maggior parte della ricchezza del Regno Unito e dove si trovano alcune delle ville più costose al mondo, messe in vendite anche a più di 20 milioni di sterline! Ahinoi, alla portata di pochi, ma da sempre una delle zone più ambite della città, già in passato infatti artisti e intellettuali l’hanno eletta a loro dimora, probabilmente attratti dall’atmosfera accogliente e bohemien da piccolo villaggio isolato. Non a caso i più si riferiscono a questa zona con il termine Hampstead Village, a testimonianza anche di come Londra sia formata da diversi caratteristici borghi, inglobatesi col tempo alla città. Ancora oggi qui si viene proiettati in un’altra dimensione: un dedalo di scalinate e di viuzze strette e lastricate, negozietti d’altri tempi, vecchissimi pub, ville splendide, case chich, ordinate e ben tenute. Atmosfera e fascino tipicamente da epoca georgiana. E’ davvero un piacere passeggiare in questa zona dall’intatta essenza british, così tranquilla e vivibile, dove regna un inconsueto silenzio che fa dimenticare di essere poco distanti dal centro caotico di una grande metropoli. Merito anche del fatto di essere un’area ancora poco nota ai turisti (meglio così, ma un giorno mi dovrete spiegare perché l’essere umano medio pur popolando un pianeta così vasto, tende spesso ad andare nei soliti posti).


Ah, dimenticavo, ad Hampstead troverete anche caratteristiche chiese in pietra, alcune delle quali circondate da cimiteri sepolti dalla vegetazione. In particolare non dimenticherò facilmente la graziosa chiesetta di St. John e il suo suggestivo churchyard, il più antico rimasto intatto nella capitale, nel quale una sera d’inverno, già col buio, nonostante il maritozzo mi implorasse di non farlo, ho avuto la brillante idea di inoltrarmi. Camminando con il telefono a farmi luce per i sentierini di questo camposanto, tutto d’un tratto mi trovo di fronte a uno statuario omone. Sono prima esplosa in un urlo forte e prolungato, ho poi cominciato a ripetere “Sorry, sorry, sorry!” all’infinito e infine con il maritozzo ce la siamo svignata a gambe levate ridendo istericamente. Non prendetemi per pazza ma io sono fermamente convinta di aver avuto un incontro diciamo “spirituale”. Innanzitutto che ci faceva solo al buio, la sera di Natale, in un cimitero? La Chiesa era chiusa e lui se ne stava lì, rasente a un muro, totalmente immobile intento solo a fissarci. Non stava pregando sulla tomba di un caro defunto, per dire. Seconda cosa, vi assicuro che mi è partito un urlo da guinness dei primati, tanto che il maritozzo, che non aveva notato il nostro amico (lui, cuor di leone, stava dietro, ma d’altronde è stata mia l’idea di inoltrarmi tra le tombe con le tenebre e avreste dovuto vedere com’ero spavalda ed eccitata), sì è spaventato principalmente per le mie grida. Beh l’amico misterioso invece non ha mosso un dito e la sua espressione è rimasta identica e impassibile. Insomma anche supponendo che ci avesse visti arrivare, impossibile non fare neanche un minimo sussulto dopo un urlo del genere. Ok, con questo aneddoto mi sono sputtanata, ma alla fine è un episodio che fa esperienza e che tutto sommato ricordo con un’inquieta allegria, infatti abbiamo passato il resto della serata col mal di pancia dalle risate. E comunque la mia attrazione per le suggestive chiesette in pietra dotate di annesso churchyard non si è affievolita. Ecco, magari d’ora in poi mi ci addentrerò solo con la luce del sole…


Torniamo sulla retta via, perché non ho ancora finito di raccontarvi di questa meravigliosa parte di Londra. Eh sì, non vi ho ancora accennato a quello che è forse il simbolo di questo quartiere, Hampstead Heath, un vasto polmone verde esteso su un territorio collinare. Secondo me è riduttivo chiamarlo parco perché qui troverete boschi centenari abitati da tanti simpatici scoiattolini, prati curatissimi, lunghi sentieri tortuosi e laghetti dove i più temerari osano immergersi ma, fossi in voi, mi accontenterei al massimo di una gita in barca. Il tutto in un sali-scendi che vi condurrà alla sommità di Parliament Hill, il punto più alto di Hampsted Heath, da cui potrete godere di una splendida vista panoramica della città, dove spiccano i grattacieli della City, la cattedrale di St. Paul e, se la giornata è limpida, anche l’abbazia di Westminster. Inoltre, in mezzo a tanta natura potrete godere anche dell’arte grazie alla Kenwood House, una bellissima villa in stile neoclassico inglese, che al suo interno ospita collezioni artistiche di alto livello, con capolavori di Rembrandt, Vermeer e tanti altri.
In pratica quindi  Hampstead non è altro che un incantevole paesino di collina a 15 minuti di metro da Trafalgar Square. Capito perché vi dicevo che non avevo dubbi sul fatto che fosse il quartiere più bello di Londra?


Detto questo - avrete capito che sono una chiacchierona - torniamo dov’ero partita, ovvero da una delle mie public house preferite. Forse addirittura la preferita, ma è difficile scegliere, sicuramente nella mia top 3. The Holly Bush. Mi ci sono imbattuta per caso perché, nonostante si trovi a pochi passi dalla fermata metro di Hampstead, questo caratteristico pub è nascosto nel cuore delle sue labirintiche stradine. Me lo sono inaspettatamente trovato davanti dopo una piccola curva, in una zona residenziale dove non ti aspetteresti proprio di trovarlo, e invece eccolo apparire a sorpresa. E’ stato amore a prima vista. The Holly Bush rispecchia appieno la mia idea del tipico pub inglese di campagna. Già dall’esterno lo troverete delizioso e curato, con la sua facciata bianca e le finestre ornate di fiori anche in pieno inverno. Se ne sta lì solitario, in una location incantevole. Impossibile non desiderare di entrare, così ne varco la soglia e ottengo subito la conferma di aver trovato un posto speciale. Pavimenti e pareti in legno infondono un’atmosfera calda e intima che mi fa sentire ben accolta e mi invoglia a fermarmi. Il pub è disposto su due piani, conta numerose salette ed ospita un vero camino. Si respira tanta tradizione e non mi stupisco nello scoprire che queste mura contano più di 200 anni. Non mi sorprende neppure sapere che qui sono di casa il mio registra preferito ,Tim Burton, e la sua adorabile consorte. Ce li vedo proprio, si respira una magia che gli si addice!


Dopo questa prima volta ne sono seguite tante altre perché non solo qui si bevono ottime birre, ma si mangia anche divinamente. Il locale appartiene alla Fuller’s, il pluripremiato birrificio londinese, che possiede circa 400 pub sparsi in tutto il sud dell’Inghilterra. Il fiore all’occhiello della loro vasta gamma di ale è la London Pride, una bitter dall’intenso colore dorato, una corposità media, profumo luppolato e maltato e dal sentore leggero ma inevitabilmente amaro, come ogni ale che si rispetti. Io amo molto anche la loro London Porter, una birra scura, dal profumo e sapore intensi che richiamano un mix di caramello , caffè e cioccolato, gusto amaro e con un leggero sentore maltato. Ottime birre quindi, ma, diciamocelo, non è che in territorio inglese sia così difficile incappare in deliziose pinte. Il bello è che qui troverete anche un’ottima cucina tradizionale, talvolta rivista in maniera sfiziosa. Premesso che in generale non tollero sentir dire che la cucina inglese è pessima. Non è vero, io conosco tanti pub dove si mangia molto bene, così come ne conosco altri dove succede il contrario, un po’ come avviene in tutto il mondo. Ecco, sicuramente la tradizione culinaria britannica non è particolarmente dietetica, ma ciò non significa che non si tratti di prodotti di buon gusto e di qualità. Beh, all’Holly Bush non solo si mangiano ottime pietanze della tradizione anglosassone, qui la cucina locale è proprio ad un altro livello. Ottime pie, di solito però presenti in non più di due varianti, ed eccellente carne. Infatti è qui che solitamente mi rifugio per gustarmi in santa pace il mio Sunday Roast, rituale domenicale irrinunciabile per i londinesi e non solo. Per chi non lo sapesse, il Sunday Roast è un piatto di carne arrosto accompagnato da un contorno di patate ed altre verdure, il tutto annaffiato da abbondante gravy, salsa diffusissima nei paesi anglosassoni solitamente ottenuta dal fondo di cottura della carne, e spesso accompagnato da un bel Yorkshire pudding, una specie di bocconcino di pastella che per gli inglesi funge da sostituto del pane. Quello dell’Holly Bush è decisamente il mio Sunday Roast preferito. E’ sempre abbondante, saporito e, cosa non scontata, sostanzioso ma mai pesante o indigesto. Oltretutto ogni volta che vado, altro aspetto da non sottovalutare, trovo sempre una proposta diversa sia per il tipo di carne servita, sia per quanto riguarda l’accompagnamento. Unico difetto del locale è che i prezzi sono leggermente più cari della media, ma considerata la qualità delle pietanze e la location non ho dubbi nel dire che ne vale la pena.


Cheers and burp!